Aperto il sabato pomeriggio.

Su prenotazione : tel. 0963353472.

Se siete a Dasà chiedete dei volontari in loco.

giovedì 22 settembre 2011

nel blog

Blog museo

Al naufrago disperso su un’isola sperduta in mezzo al mare altra speranza non rimane che affidare, chiuso in una bottiglia, un messaggio di aiuto nella speranza che qualcuno possa un giorno leggerlo e liberarlo dalla sua forzata solitudine.
Nell’immenso mare di internet mi sento un naufrago solitario dimenticato su un isolotto minuscolo, piccolo come il paesino che mi ha generato ed al quale sono abbarbicate le mie radici. Ho amato il dialetto, la lingua che mi ha allattato al seno della mia terra, l’ho vissuto cotraro tra tanti cotrari, maturato e cresciuto con i miei anni. Risalendo il filo di questo linguaggio mi sono sempre più riappropriato di vicende e situazioni che mi appartenevano pur non avendole mai vissute o conosciute in alcun modo.
Mi sono seduto su un rumbulu du massaru, ho notricato sirico andando a raccogliere frunda di gelso insieme alle nostre donne, ho conservato il refrigerio di una nivera dissotterrata lassù sopra i chjani di Acquaro, ho percorso petriari che mai avevo battuti prima per scendere da Mongiana assieme a zia Titì con cinque tavuluni di sedici parmi portati sulla testa, ho incominciato a tessere al telaio della Cannunera di Arena la trama della nostra gente.
Chiedo perdono per aver fuso e confuso esperienze personali e ricordi collettivi, ma questa è l’esperienza del Museo del dialetto: la fatica di trovare il sentiero dimenticato che porta alle nostre origini. Un cammino lungo e difficile, ma appassionante.
 Ho aperto con molto ritardo, ma soprattutto con molto timore questa piccola finestra su internet per dire al mare che mi stava dinnanzi: c’è anche il Museo del Dialetto di Dasà; c’è il tentativo di salvare una lingua che sta morendo e con essa la storia che essa si porta dentro.
Ho accattijiato a questa finestra nella speranza che qualcuno si fosse avveduto ch’era abbuccata, si fosse affacciato per sbirciarvi. Qualcuno lo ha fatto e questo mi rincuora.
Altra moneta non chiedono le mie gratuite fatiche che trovare altri naufraghi che come me lanciano alle onde turbolente dei nostri tempi la loro richiesta di aiuto affinché la lingua che ha segnato la nostra alba possa continuare a sorgere nelle albe dei nostri figli.

mercoledì 21 settembre 2011

8/9

8 di settembre
festa dell’ Immacolata

L’ 8 di settembre era di giovedì e la banda di Pizzoni suonava per la festa dell’ Immacolata..
Bruno in onore di san Brunone di Colonia, Maria in onore della Madonna, ma Domenico era il suo vero nome e mastro Micuzzu quello col quale tutti affettuosamente lo chiamavano. Io gli devo il nome e non solo.
I santi venerati dalla chiesa sono molti di più dei giorni del calendario. Per tale motivo san Domenico, in contrasto con san Gaetano o con qualche altro insigne collega, dopo essere stato festeggiato per secoli il 4 di agosto, finì segnato all’ 8 di agosto.
Il nonno, cattolico ossequioso, disubbidendo al nuovo calendario, rimase attaccato alla vecchia data e tutti, figli, nipoti, pronipoti ed amici, continuammo a festeggiare il suo onomastico il 4 di agosto.
Sulla sua scia anch’io rimango abbarbicato a quella data nella quale ricevo gli auguri per la mia festa del nome.
Una data è una ricorrenza, un ricordo, un punto fermo sul calendario. In mezzo ai tanti giorni che scorrono via veloci come i granellini di sabbia nell’inesorabile clessidra del tempo nel suo perenne fluire qualche giorno deve pur rimanere fermo, saldo, radicato ad affetti, valori, ricordi.
Sto, nel divenire: ergo sum.
Il nonno era immacolatista , devotamente affezionato alla Madonna dell’ Immacolata e alla solennità dell’ 8 di settembre. Venne il progresso con la giusta laicizzazione del calendario e le festività ecclesiastiche si ritrovarono sballottate da una domenica prima ad una domenica dopo in date sempre diverse.
Quest’anno l’8 di settembre era di giovedì ma la banda di Pizzoni suonava per la festa dell’ Immacolata. Una dolce serata di settembre, le note musicali, la processione delle Confraternite, il catafalco, la litania, i fuochi pirotecnici. È stato un bell’ 8 di settembre, una bella festa dell’ Immacolata.
Grazie, al Parroco ed alla Cattedra della Confraternita per aver voluto rispettare questa data, per aver voluto rispettare questa tradizione antica.
La mia esortazione è che si contrassegni sui nostri calendari questa data. Vicini o lontani l’ 8 di settembre fermiamoci, anche solo un attimo, per un’ Ave Maria. Prepariamo,magari, una torta o un pasto speciale: per festeggiare il compleanno di chi? ci chiederanno i nostri figli. Per festeggiare la Madonna dell’ Immacolata.
La chiesetta dell’ Immacolata fu distrutta da un terremoto all’inizio del ‘900 e i nostri padri al suono della campana venivano chiamati per raccogliere pietre, trasportare sabbia, impastare cemento: fu la ricostruzione con l’aiuto di tutti.
Anche noi oggi siamo chiamati ad una ricostruzione molto più difficile ed impegnativa di quella materiale. Oggi ci sono da ricostruire valori e tradizioni smarriti, morali e fedi fuori moda.
Il ricordo più lontano della mia vita risale ad una processione eccezionale. Da Dasà abbiamo raggiunto San Lorenzo per non so quale centenario. Avevo tre o quattro anni, vestito da immacolatista, la mia manina in quella di mio nonno.
Come su una vecchia pellicola in bianco e nero scorgo ancora il profilo di mio nonno che arranca tenendo per mano un cotraro nella luce fievole e tremolante delle fiaccole.
Dopo oltre quarant’anni stringo anch’io la manina del mio Luca che ha paura dei fuochi pirotecnici per continuare, assieme ai suoi due fratelli, la processione dell’ Immacolata, del Rosario, della Dasà che mi appartiene cui appartengo.

Mimmo Catania

sabato 11 dicembre 2010

Le nostre misure 26 dicembre ore 18.00 biblioteca comunale

Museo del Dialetto di Dasà

Luogo della memoria di Sambiase – Lamezia

presentano

“nci vol’a menzacanna”

dal palmo al metro

Pesi e misure delle nostre terre

Introduzione storica
Ing. Antonio Tripodi

Biblioteca Comunale di Dasà
26 di dicembre ore 18.00

lunedì 11 ottobre 2010

toponomastica segue


parole   greche

Pentadattilo        pentedàktylos    cinque dita
Stilo                   stùlos                 colonna
Spilinga             spèlugga            grotta
Papaglionti      papàs Andreas        don Andrea
Dinami        dunàmeos             potenza
Calimera         kalemeron     buon giorno
Calispera         kalespèra          buona sera
Galatro       chàradros             burrone
Nao             naòs                  tempio

-       à
-       às ( - άς )
abbondanza di alberi

paese                                         alberi
Caridà                                               noceto
Dasà                                                 zona boscosa
Melicucc                  luogo di melicucchi, cioè bagolari
Cardà                                                cardeto

-       aci – ace
-       àkion ( - άkιον )
diminutivo
  Monasterace                               piccolo convento
                Riace                                             piccolo ruscello
Gerace                                                       falchetto
Colaci                                                        nicolino
-       ico – ica
-       ikòs ( - ιkòς )
possesso
paese                                       possesso di un
               briatico                                                briatis
               francica                                               franco

 





giovedì 7 ottobre 2010

- adi
- àdes ( - άδες )
discendenti di una famiglia

paese famiglia
Jonadi Jonà
Ricadi Riga
Limbadi Limbà



- oni
- ones ( - ωνες )
discendenti di un capostipite

paese capo della famiglia
Candìdoni Candido
Conìdoni Conidi
Mandaràdoni Mandarano
Pannàconi Pannaci
Stefanàconi Stefanaci

forma abbreviata
paese abbreviazione in greco famiglia di
Triparni Tripàroni Trupàrones Trupàres
Rosarno Rosàroni Rusàrones Rusàris
Gerocarne Gerocàrone Jerakàrones Jerakàri

mercoledì 6 ottobre 2010

toponomastica


Toponomastica

Il 13 di agosto del corrente anno abbiamo presentato al Museo un nuovo argomento/sezione: la toponomastica: lo studio dei nomi dei luoghi.
La serata si è sviluppata con la seguente scaletta:
toponomastica regionale
toponomastica locale
itinerari regionali e locali
relazione storica sullo Stato di Arena dell’ing. Antonio Tripodi
serie fotografica sui mezzi di trasporto di uomini e donne.

Per la toponomastica regionale si è fatto riferimento al testo: “Calabria e Salento   Saggi di storia linguistica”   di  Gerhard Rohlfs.
La toponomastica è una luce su quella parte di storia così antica da non avere altro documento se non quello dato proprio dal nome del luogo. I nomi dei luoghi possono sovente indicarci a chi apparteneva originariamente quel posto,  a quale famiglia, a quale capostipite, chi ne era il possessore, le caratteristiche del luogo, la presenza di alberi od altre piante, la morfologia del terreno e così via.
La toponomastica è perciò una carta d’identità dei luoghi.
Fondamentale è la parte finale dei nomi.
- adi ed  – oni sono desinenze greche ( sfondo celeste ) dalle quali ricaviamo i nomi delle famiglie o del capofamiglia che hanno fondato un centro abitato.

martedì 5 ottobre 2010

carcara


Carcara
 L’etimo latino spiega che la “fornax calcaria” è la fornace della calcina: la pietra calcificata che cotta appunto nella “carcara” veniva poi utilizzata nelle costruzioni delle case dopo essere stata sciolta in un apposito fossato con l’acqua. La “carcara” vera e propria è perciò quella ancora esistente a Sambiase di Lamezia Terme. 
Per estensione si sono chiamate anche carcare le fornaci ,abbastanza diffuse nei paesi, per la cottura dei laterizi e degli “argagni”: graste, teglie, salaturi, tiasti e simili.
Anche Dasà aveva la sua carcara, apparteneva alla famiglia di Ciccio Vetrò, mio nonno acquisito. La figlia Marianna Vetrò, mia suocera, ha lavorato tanti anni alla carcara del padre e mi ha spiegato che …
Innanzitutto veniva scavata la creta (bianca per le tegole, rossa per i mattoni) con zappe e picconi, si trasportava sulla testa delle donne con le ceste e si lasciava poi calìjare alcuni giorni. Quando ntostava si ammojava ‘nto mitraru (una fossa quadrata che si riempiva d’acqua fino a che la creta non s’mbbonava bene).
‘nto mitraru la creta si manijava con la pala, s’mpaticava come l’uva nel palmento fino a renderla una pasta uniforme e pronta per la lavorazione.
Sul bancone di lavoro si spargeva rina fina affinché la creta non si appiccicasse (come la farina nella madia quando si schiana il pane). La creta doveva essere netta: si c’era lordìa u mattuni si spaccava. Negli appositi muadula (le forme) si carcava la creta con le mani e si passava una cordèja di spagu torciuito intorno allo stesso modulo per staccare la creta dalla sua forma ( a finestra per i mattoni).
 Bisognava quindi lasciare asciugare i laterizi così lavorati (sino a mille al giorno) facendoli calìjare al sole per qualche giorno. Si disponevano per terra in fila ordinate come un esercito di soldatini di bambini, un muro posto in orizzontale, un tetto senza muri. Quando erano mezzi asciutti i laterizi si gabbittavanu: s’incastèjavanu perché occupassero meno spazio e fossero più facilmente copribili in caso di minaccia di pioggia: non c’erano i teloni di plastica e per riparare 1000 visuli bisognava coprirli con 1000 ceramìji.
Le giornate di pioggia erano le ferie imposte dalla natura, non si poteva lavorare. Se l’acqua scorcciava i laterizi non ancora cotti, questi si facevano tignusi, parianu du vajìualu e si dovevano squagliare di nuovo, tornare tutto d’accapo
Finalmente, quando il numero dei laterizi era sufficiente per una infornata si arrivava alla carcara, alla fornace alta sino a cinque metri e larga circa due metri. Sotto andavano i mattuni, tre, quattro suali; nel mezzo i ceràmiji, altri quattro cinque suali; sopra i visuli larghi (per foculari e furni) e stritti per i pavimenti delle case e i pignati forati per i quinti e le timpiate delle case.
Continua …
Continua il lavoro di questa piccola industria di sola fatica umana (di braccia, di gambe, di teste, di sudore) mischiata alla terra, al sole, al fuoco.
Nella carcara si cucinavano anche pignati pa’ suriaca, grasti, cortari, guazzi realizzati nella zona, cioè al di fuori del nostro ciclo produttivo concetrato sui laterizi.
Noi facevamo anche brìasti di taju che non andavano cotti nella carcara: terra, acqua, sole e, ogni tanto, della paglia per aggregare meglio questo mattone naturale, pesante, compatto, ma molto buono per isolare le nostre case dalla calura del sole e dai rigori del freddo.
Il fuoco della carcara a Sambiase, la fornace della calce,  sapeva di inferno dantesco: doveva essere molto forte e durare diversi giorni per arrivare a cuocere la calce viva. I laterizi della nostra carcara necessitavano di una cottura più leggera: solo ventiquattrore di fuoco costante. Tant’è che vi si arrostivano le patate, i pepi e ‘i vijiozza cu na sula fusca.
A vucca da furnaci si chiudeva cu nu timpagnu ‘i crita; la sua base invece era fatta da un manufatto nu sualu di taju pieno di fori per far passare il calore: come la padella delle caldarroste. Il fuoco andava appicciatu e civatu avendo accortezza di non fare molto fumo per non annigricare i mattuna. Per controllare la cottura bisognava addunarsi ai quadriatti, i visuli messi in alto: quando erano rossi erano finalmente cotti.
I laterizi si  lasciavano raffreddare per tre, quattro giorni, salvo che ci fosse una commessa urgente per cui si arrivava a sfornarli ancora caldi con l’aiuto di piazzi.
Giungeva la ricompensa di tanto lavoro: 100, 1.000, 10.000 lire a seconda delle epoche e del numero dei pezzi venduti. In tempo di guerra non circolavano le lire. 1.000 mattoni valevano nu tumanu di ranu, 100 ciaramìji nu stuppìaju ‘i suriaca, 50 visuli nu quartu ‘i migghju.
Dalla carcara di Ciccio Vetrò sono usciti i mattoni e le tegole di tantissime case di Dasà, dei paesi vicini e anche più lontani: avevamo commesse anche da Mileto, Francica.
Oggi la carcara non fuma più la sua fatica umana, non sforna più i suoi laterizi che sopravvivono sui tetti e nei muri delle nostre case. A carcara giace dimenticata più in giù del cimitero, nascosta da macerie e sipali intricati. Il progresso l’ha superata, cancellata persino dalla memoria, solo il nome del luogo le sopravvive.
I ceramìji hanno lasciato il posto all’eternit: i manufatti naturali sono stati soppiantati dai prodotti industriali, freddi d’inverno, caldi d’estate e cancerogeni tutto l’anno.
Quanto regresso nel nostro progresso.
Mimmo Catania